Conversazione tra Paola, Piero, Roberta, Sabrina.
DOMANDE :
1- in un ambiente pubblico, luogo di transito, un oggetto, un’azione o comunque qualsiasi intervento dell’artista può suscitare un’emozione, una riflessione per un punto di vista nuovo, un’impatto che lo definisca come momento eccezionale (inteso come atipico) e quindi venga letto come un particolare tipo di esperienza alla quale attribuire un “valore”? Non importa se non codificato come “valore” appartenente ad un linguaggio specifico, ma comunque “valore”, per l’evidenza che lo distingue dalla normalità delle consuetudini conoscitive, che lo rende prezioso?
2- Esiste ancora, per il lavoro d’arte nel nuovo contesto pubblico, qualsiasi forma prenda, l’appartenenza ad un’area che l’ha prodotto, che lo difende e lo sorregge e lo distingue in un’identità, oppure diventa cosa tra le cose?
Abbiamo citato il caso di un’intervento artistico in uno spazio pubblico, il lavoro collocato era in realtà un oggetto d’uso comune e come tale letto dalla gente comune, è successo che il lavoro lasciato essendo un oggetto d’uso è sparito. Per noi questa sparizione ha un valore perchè la “cosa” sparita apparteneva alla cultura artistica, per chi se l’è presa, no. Non importa il nostro personale piacere o dispiacere per l’accaduto, e aldilà della funzionalità o meno dell’oggetto, appare evidente che da una parte nessuno legge l’intervento come un’operazione artistica, dall’altra invece esso viene caricato di un significato particolare frutto di un atteggiamento che proviene dall’arte.
- Così come nella realtà sociale, politica ed economica, le tradizionali categorie di pensiero si stanno dimostrando insufficienti nel far fronte al complesso processo di trasformazione in atto che mostra sempre più attenzione alla ricerca di nuove forme politiche di associazionismo, allo stesso modo anche per un linguaggio artistico che non si fa più precursore ma si ritrova sullo stesso piano della realtà contingente, ricevendone anche l’influenza, vale l’attenzione per la ricerca di un nuovo linguaggio in grado di ridare senso autonomo al fare.
In effetti il precedente si rivela inefficace nel valutare i nuovi comportamenti attuati dalle nuove condizioni che l’arte si deve inventare per mantenere una sua autonomia di risposta alle strategie di cannibalismo messe in atto dalla nuova economia.
CI RICORDIAMO
e ne riportiamo alcuni passi, dell’intervento di Adachiara Zevi al convegno in onore di Jole de Sanna tenuto all’Accademia di Brera, nel mese di aprile 2005.
-“Oggi omologazione e revisionismo occupano il campo. Con il trascorrere del tempo e l’allontanarsi degli eventi, dietro l’alibi di una globalizzazione che pretenderebbe di abolire i confini e risolvere le disuguaglianze, è in atto un tentativo di pacificazione che mira a sfumare, appiattire e livellare differenze poetiche, appartenenze ideologiche, battaglie identitarie, riducendo il dibattito culturale ad una miserevole rincorsa al consenso, complice le strategie comunicative. Per essere plausibile, l’operazione necessita di una riscrittura della storia; esattamente quanto sta accadendo per la relazione tra arte povera e transavanguardia.
…così negli ultimi due anni, abbiamo assistito al rilancio su larga scala dei protagonisti della Transavanguardia, spesso a braccetto con i loro antagonisti, accomunati dall’essere “i principali movimenti degli anni settanta”...Con lo stesso spirito, si sta rivalutando il peggior ciarpame fascista, come il quartiere E42 Eur a Roma, accomunando il Colosseo quadrato, l’esedra, e altre sinistre realizzazioni del Ventennio al Palazzo dei Congressi di Libera al Palazzo dello Sport di Nervi all’Edificio delle Poste dei BBPR. Verrebbe quasi da sorridere se non fosse che in tale processo revisionistico non è travolta solo la storia dell’arte ma la nostra stessa storia, quando si equiparano fascismo e antifascismo, Shoà e foibe, Giorno della Memoria e Giornata del Ricordo….”-
- Il “valore” attribuito all’opera e al fare dell’artista, che nel passato, anche non troppo lontano, portava con se caratteri di sintesi e di rappresentanzione del mondo, probabilmente, nel cambiamento da tempo in atto dei processi operativi, ora non è più visibile, proprio per le modalità necessarie ai nuovi ambiti di lavoro.
RACCONTO
del film documentario di Naomi Klein : the take, su quanto è successo in alcune fabbriche argentine dove gli operai abbandonati a se stessi si riprendono le fabbriche e inventando una loro strategia di sopravvivenza e di solidarietà le rimettono in funzione.
Si riflette pensando che probabilmente questo gesto è anche la riappropriazione di un’autostima che emerge proprio quando si fa a meno di un padrone o di un sistema che traccia le coordinate, e organizza anche il tempo privato (pensando anche all’arte). Dal racconto emerge che in questo modo si scoprono le false complicazioni che servono a creare quelle difficoltà necessarie al potere per il controllo costante della situazione.
RIFESSIONI
dalle quali oggi è emerso che il nostro progetto per ora si divide in due momenti: da una parte la distruzione delle opere ha a che fare con la violenza del potere e tutto quel che comporta questo aspetto, quindi niente nostalgia per il passato (nel senso di conservazione e restauro) ma la considerazione che l’opera d’arte è considerata pericolosa poiché è depositaria dell’identità culturale di un popolo. La distruzione delle opere può avvenire in modalità differenti, o attraverso l’attacco diretto mostrando una sorta di crudeltà esibita o tramite una sorta di menefreghismo consapevole per cui in un bombardamento capita di distruggere anche le opere.
Esse comunque sono annesse alla stessa consapevolezza di delirio di onnipotenza nel quale tutto ciò che non assomiglia alla propria idea di mondo è pericoloso e quindi va annientato, e l’arte è l’identità differente dell’altro che va distrutta e accettata solo se assomiglierà alla nostra visione delle cose. Gli esempi sono tanti come in Cina nel periodo Maoista o in Germania con il Nazismo, ma anche con il terrorismo recente delle bombe agli Uffizi di Firenze o Alla chiesa di S. Giovanni a Roma o al P.A.C. di Milano, essi ci dichiarano l’aspetto importantissimo dell’arte come immagine nella sua funzione politica, sociale e simbolica.
La cosa però assurda è che nonostante questo ruolo importantissimo dell’arte da sempre nella nostra realtà storica, l’artista non ha nessuna credibilità come figura sociale è l’ultimo anello della catena, le sue opere sono l’espressione più visibile di una civiltà ma a lui non viene riconosciuto nulla, rimane uno spostato ed emarginato senza possibilità di incidere concretamente nel tessuto sociale (naturalmente non stiamo parlando di carriere, di successi economici o di potere).
Anche nella storia della cultura spesso un periodo succede ad un altro senza riconoscerlo ed anzi nella storia dell’arte si sono compiuti scempi e distruzioni con leggerezza, anche se per certi versi, si trattava però di questioni teoriche pensate più ad un superamento, che non alla violenza vera e propria per un desiderio di annientamento.
L’altro aspetto riguarda la preoccupazione di molti sulla considerazione dell’opera oggi, proprio perché l’artista, lavorando sulla precarietà e sulla contingenza, tende a non conservare.
“Le modalità necessarie” che dicevamo prima, prediligono l’azione, l’atteggiamento, il progetto che si svolge e si dissolve nel suo farsi, al monumento perenne.
DOMANDA
Da cinquant’anni a questa parte gli artisti stanno lavorando senza la preoccupazione dell’oggetto che deve rimanere, non è un loro pensiero fisso e quindi quale testimonianza rimane se la deperibilità dei lavori d’arte non li consegna materialmente alle generazioni future?
- L’artista del passato era subordinato alla sua opera, essa era il vero e unico soggetto di riferimento, l’artista moderno riesce a mantenere un esile rapporto con la sua opera solamente come generico autore. Ora nello spostamento dall’opera al processo ne esce una nuova figura etica che lo vede più come intellettuale, responsabile non solo culturalmente ma anche socialmente e civilmente. Qui il concetto di persona che prima non era contemplato, diventa importante, la nuova identità dell’artista accetta la promiscuità con il mondo e non a caso siamo capitati in questa situazione di lavoro nell’isola Garibaldi.
L’artista quindi non è più così indipendente dal risultato ma ne è parte attiva, la sua figura è visibile.
- O ci si rende consapevoli di questa visibilità e ci si fa responsabili di questo, oppure, nel mondo, gli artisti saranno veramente quei creativi che per edificare l’immagine del loro datore di lavoro, o committente se suona meglio, sono disposti a strumentalizzare spettacolarmente tutto, oppure saranno i manager aziendali con le loro creative strategie di profitto.
- La creatività collettiva sulla quale ultimamente fa molto affidamento la cosiddetta “nuova economia” fa leva su di una capacità che abbiamo tutti, chi più chi meno, spacciandola genericamente per cultura, ma nel momento in cui diventa elemento importante di produzione economica si trasforma in strumento meccanico deresponsabilizzato, privo di coscienza che invece ritroviamo appieno nell’artista in quanto, lontano da qualsiasi tipo di reificazione, si assume la responsabilità pubblica del suo fare (naturalmente non ci riferiamo a quegli artisti utilizzati come piacevole intrattenimento).
- Uscire da un linguaggio comporta il pericolo di incontrare la pretesa della gratuità, con l’obbligo della garanzia, poiché l’immagine apparentemente si presta a quella gratuità che non è propria della scienza o della filosofia.
- Ritornando all’importanza del processo, allora i luoghi in cui avviene questo processo, ad esempio la stecca, diventa un luogo prezioso per l’arte e quindi pericoloso in quanto luogo d’arte, e si ritorna al concetto di pericolosità, pericoloso e attaccabile.