Intervista a Bert e Mariette

OinO - Dalle interviste che abbiamo fatto agli abitanti dell’Isola ne è venuto fuori un panorama interessante e vario, in cui tutti tengono molto ai giardini ma anche alla cultura e all’arte, però tutti vedono con sospetto la Stecca per come versa nelle condizioni attuali. Ne è venuto fuori un quadro soprattutto sociale e politico di interessi diversi. Voi che siete abitanti del quartiere come e quando avete preso la decisone di prendere parte alla lotta per la salvaguardia della Stecca? Quale è il vostro punto di vista di artisti e abitanti che vivono e agiscono in questa situazione?

Bert - E’ stato cinque anni fa, nel 2001 ed eravamo già abitanti del quartiere. Abbiamo preso la decisione di partecipare a questa lotta per la salvaguardia della Stecca e anche dei giardini che rappresentano lo spazio pubblico, perché riteniamo che parlare solo della Stecca non sia corretto. Noi sin dall’inizio abbiamo pensato allo spazio pubblico, al quale appartengono la Stecca e i giardini, ed è avvenuto in modo molto organico, forse perché abbiamo visto i progetti che stavano per concretizzarsi per il quartiere e le trasformazioni che dovevano arrivare. Questa era, diciamo, la situazione oggettiva e la situazione soggettiva, ora parlo per me, era, come artista, di continuare il mio interesse per lo spazio pubblico. Per esempio in uno dei primi lavori che ho fatto in Italia nel 1995, alla Biennale di Venezia, ho fatto l’opposto, l’antitesi dell’arte pubblica, che consiste nel porre delle opere d’arte nello spazio pubblico, mentre io invece ho introdotto lo spazio pubblico nello spazio dell’arte, perché ho creato una situazione dentro alla Biennale che era uno spazio pubblico diverso da tutti gli altri spazi, con un padiglione finto e un giardino interno dove la gente sì è comportata come non si comporta mai in un museo o alla Biennale. Questo soltanto per dire che il mio interesse è lì e questo vale anche per Mariette, dato che abbiamo sempre lavorato insieme, perché lei con il video ha sempre documentato queste cose. Dunque già il nostro interesse artistico ha incontrato una situazione in cui uno spazio pubblico, legato alla nostra vita, dato che siamo parte di questo quartiere, era in pericolo. E’ stata dunque una decisione non molto difficile da prendere, una decisione che è avvenuta perché abbiamo sin dall’inizio visto le potenzialità di questa situazione, anche l’impegno che richiedeva, dato che era una situazione che sarebbe durata nel tempo. Era chiaro che sarebbe stato un progetto di anni, perché qui non si tratta di un’opera o di fare delle opere, ma un lavoro a lungo termine, che ti coinvolge dalla mattina alla sera.

OinO - Quindi dallo spazio pubblico rappresentato a quello effettivo?

B - Sì quello della Biennale era un po’ l’opposto, ma ho anche fatto molti lavori nello spazio pubblico, in diverse città, ma mai così a lungo termine, questa è la diversità.

OinO - Per queste ragioni si sta parlando di un progetto che vi ha coinvolto sia come cittadini sia come artisti?

Mariette - E’ venuto un po’ automatico, abbiamo trovato casa qui nel ’97 ed abbiamo cominciato nel condominio a sistemare l’aiuola, con gli altri condomini, abbiamo comperato insieme le piante, per migliorare il nostro piccolo spazio in comune, che è anche un modo per conoscersi. E allora quando esci dal tuo condominio e vedi l’unico spazio verde del quartiere, questi giardini dove discuti con la gente, ci vai a leggere il giornale, è veramente l’unico posto dove puoi incontrare la gente e parlare, viene un po’ automatico interessarsi a quello che succede lì. All’inizio abbiamo incontrato Augusta.

OinO - All’inizio la Stecca era chiusa?

B - Era in parte aperta, perché già c’erano gli artigiani, ma c’erano molti spazi chiusi.

OinO - L’interesse, anche sotto il profilo artistico, si è quindi sviluppato immediatamente a partire dallo spazio pubblico verde?

B - Il primo intervento è stato, diciamo, nel 2001, con “Untitled”, la palizzata bianca, quando noi non eravamo ancora dentro alla Stecca. Poi, partendo da questo lavoro realizzato con niente, con una trentina di volontari - ed era una barriera simbolica contro il progetto, perché se il comune fa la strada deve distruggere questo lavoro, anche se era chiaro che non sarebbe servito a fermare un caterpillar che in cinque minuti lo spazza via abbiamo pensato di costruire attorno a questa barriera simbolica, questa opera manifesto, una barriera vera, sociale e politica. Era impossibile farlo come singolo artista, dunque nel 2002 abbiamo creato OUT, Ufficio per la Trasformazione Urbana, e così abbiamo occupato uno spazio abbastanza piccolo al primo piano della Stecca.

OinO - Quindi avete trovato solidarietà anche come artisti non solo come cittadini?

B - Sì. Era sin dall’inizio stato dichiarato che questo era da parte nostra un progetto di arte contemporanea e dal 2001 abbiamo, insieme a Cantiere Isola organizzato dei piccoli eventi, anche in collaborazione con Care/Of e Viafarini, perché non avevamo niente, e con pochissimi artisti, soprattutto Stefano Boccalini e un po’ il Gruppo A12 e qualche curatore come Roberto Pinto, Emanuela De Cecco e Marco Scotini. OUT nasce nel 2002, nel momento in cui nasce anche una vera resistenza da parte dei cittadini. Nel 2001 esisteva Cantiere Isola formato da giovani architetti che avevano finito il Politecnico e che volevano fare una ricerca sulle trasformazioni del quartiere, ma non avevano le idee chiare su cosa fare, essere o non essere d’accordo, come all’inizio anche il Gruppo A12. Si son fatte delle riunioni con gli abitanti organizzati da Cantiere Isola che non hanno portato a un vero comitato di quartiere, poi alcune persone come Augusta e Patrizia hanno creato questo Comitato dei Mille. Cantiere Isola è sempre rimasto piuttosto un laboratorio di quartiere e non ha mai voluto prendere delle posizioni radicali, anche se in un certo momento ha detto di essere contro il grande progetto Garibaldi/Repubblica, però in pratica erano sempre un po’ di qua e un po’ di là. Nell’ufficio OUT ho coinvolto Marco Vaglieri, Alessandro Di Giampietro, l’architetto messicano Lorenzo Rocha Cito e abbiamo creato questo ufficio che non è un gruppo, ma piuttosto uno strumento di lavoro dove certe persone potevano lavorare al progetto, ma per altri era una cosa più libera.

OinO - Sin dall’inizio c’è stata la volontà di creare uno spazio artistico di lavoro in relazione con il quartiere, cioè l’idea di Art and Community Center?

M - No, all’inizio esisteva OUT perché abbiamo capito che la gente del quartiere faceva fatica a leggere i progetti degli architetti di Cantiere Isola, che facevano modelli e modellini, ma la gente non li capiva e allora è nato OUT come idea di mettere a disposizione della gente degli strumenti per capire meglio e anche per esprimersi meglio. Questa all’inizio era la prima idea di un progetto artistico, poi è nata l’Associazione di Isola dell’Arte e solo ultimamente, da quando abbiamo rinforzato questo legame con il quartiere e soprattutto con l’Associazione Genitori, è nata l’idea dell’Art and Community Center, che forse come idea iniziale è venuta dai genitori, di chiedere cioè degli spazi per l’arte e per il quartiere. Discutendo con i genitori ma anche con il Comitato dei Mille è nata quest’idea più interessante di avere spazi per il quartiere che in parte potrebbero essere anche disponibili per l’arte e viceversa.

B - Nel 2002 si è capita una cosa che se questo movimento voleva ottenere un risultato serviva il massimo di supporto esterno entro il quartiere e che a Milano il mondo dell’arte era frustrato dall’assenza di spazi per l’arte contemporanea. Dunque anche il fatto che alcuni artisti sono venuti all’Isola, tra cui Grazia Toderi che aveva preso lo studio in Via de Castilla, che è venuta a vedere gli spazi alla Stecca ed era entusiasta. Allora l’idea era molto semplice: l’arte, proprio per la situazione difficile a Milano, può giocare un ruolo in appoggio alla lotta del quartiere, dato che il quartiere vuole difendere il suo spazio pubblico, l’arte vuole spazi per l’arte, bene mettiamoli insieme, di due problemi facciamo una forza. E così è stato. Quindi le prime riunioni dell’Isola dell’Arte sono state fatte nell’ufficio di OUT, poi nel 2003 abbiamo creato l’Isola dell’Arte con tanti artisti e critici.

OinO - Qual’è il significato di OUT?

B - Office for Urban Transformation, ma è anche un gioco di parole perché out significa fuori e qui c’è il rischio dello sfratto.

OinO - C’è stato un momento preciso in cui avete deciso di collaborare pienamente con il quartiere?

M - Durante uno degli eventi da strada con inchieste sul quartiere è nata l’idea di fare un incontro sulla Public Art e nella stessa occasione un primo intervento nel giardino dove Stefano Boccalini ha messo le amache e Bert la staccionata bianca ed io da allora ho cominciato a documentare tutto.

OinO - Quindi era già stata occupata la Stecca, in qualche modo?

B - Nel 2002 Cantiere Isola ha occupato uno di questi spazi che Domenico, un artigiano, aveva lasciato, e abbiamo capito che lui aveva altri spazi ma le porte al primo piano erano proprio saldate, perché il Comune le aveva chiuse e allora noi le abbiamo riaperte, così OUT è entrato lì. Poi nel 2003 con l’Isola dell’Arte abbiamo cominciato ad occupare gli spazi del secondo piano ma era così pieno di roba, era un deposito di mobili ed altre cose, che all’inizio abbiamo potuto utilizzare solo una metà dello spazio. Però l’abbiamo aperto e nel 2003 abbiamo fatto questo evento di Isola dell’Arte che si chiamava “Le Mille e una notte” e in quell’occasione ha attirato l’attenzione del mondo dell’arte milanese ed è stata riconosciuta anche dalla stampa, infatti il quotidiano Repubblica ha scritto del progetto e così abbiamo fatto il salto di qualità, perché prima nessuno ne parlava. Per avere un risultato politico doveva diventare una cosa importante e servivano tutti questi nomi, molti poi li abbiamo persi per strada.

OinO - Ci sembra quindi di capire che portare lo spazio pubblico nell’arte era già implicito nel tuo lavoro ed ha incontrato un terreno recettivo da dove poi è scaturita anche la situazione attuale.

B - Sì, è chiaro. Perché è un progetto che non è possibile ripetere in qualsiasi situazione, ci voleva un conflitto di base tra gli abitanti e la città, il progetto che si sta concretizzando da un lato, e dall’altro gli abitanti che ne prendono coscienza e si stanno organizzando, s’inserisce in questo conflitto, in questa tensione. Quello che spiego sempre quando mi invitano ai convegni, o adesso alla Biennale di Architettura, è che esistono delle situazioni fredde e delle situazioni calde, anche le tiepide, ma comunque, dicevo, una situazione fredda è quella normale dove c’è un centro d’arte e un quartiere, dove, con tutta la buona volontà, si può portare la gente a vedere l’arte...

OinO - C’è quindi una separazione, sono due cose indipendenti?

B - Sì, l’arte contemporanea è un campo di ricerca e non immediatamente di accesso a tutti, come una scienza con il suo linguaggio. E in questa situazione c’è la didattica, però in una situazione come la nostra di conflitto, di tensione, in cui delle persone del quartiere si stanno impegnando per lo spazio pubblico si aprono altre possibilità d’intervento, perché la gente che non è frammentata, autonoma, che pensa per sé nella vita quotidiana, ma che comincia a muoversi per uno scopo comune, è più aperta a fare delle esperienze nuove.

OinO - Ma questo vale anche per gli artisti? Non tutti gli artisti sono disposti a fare questo e quindi costruire insieme alla comunità un concetto di arte completamente diverso?

B - Sì, sì.

OinO - In Europa ci sono vari esempi di queste modalità di lavoro. Voi vi siete ispirati a queste esperienze, come quella, ad esempio, di Amburgo?

B - No, Amburgo l’abbiamo scoperto per caso dopo, a Documenta. Abbiamo visto che era molto simile, non identico, perché loro hanno soltanto difeso un parco e l’hanno realizzato dopo otto anni, “Park Fiction”, e trovandolo interessante li abbiamo invitati a partecipare al nostro primo evento nel 2003 all’Isola dell’Arte.

M - Era molto interessante vedere come anche loro avevano documentato tutto, avevano fatto un film e allora volevamo mostrarlo qui. Sono venuti ed in quella occasione abbiamo realizzato una scritta “Cinema Park Fiction” perché era un nostro sogno già da molto tempo avere alla Stecca uno spazio cinema per il quartiere, anche per cinema sperimentale, anche per bambini, per anziani. Questa idea purtroppo non si è mai realizzata perché un po’ alla volta abbiamo capito che gli altri gruppi, che pian piano avevano riempito gli spazi con i loro progetti, vedevano la Stecca purtroppo un po’ come un’isola nell’Isola, volevano solo realizzare i loro progetti e non erano interessati al quartiere come noi, forse perché noi dal ‘97 viviamo qui, non so.

OinO - Forse perché voi avete un’idea dell’arte completamente diversa…

M - Infatti anche il “Comitato dei Mille” ha sempre fatto fatica a trovare negli altri una solidarietà e quindi si capisce che il nostro progetto è diverso dai progetti delle altre realtà della Stecca. La nostra lotta non è solo di salvare la Stecca, noi siamo interessati moltissimo anche al progetto urbanistico che comprende la strada, il giardino, quindi allo spazio verde e comune del quartiere.

OinO - Bert tu pensi che sarà possibile realizzare l’Art and Community Center, concretizzando così l’intenzione di una reale integrazione dell’arte con la società o resterà solo sulla carta come un’altra utopia?

B - Io penso che il progetto si può realizzare, ma non so quanto tempo vivrà, perché questi progetti dipendono anche dalla vita delle persone, nel senso che adesso in cinque anni lo abbiamo costruito con altre persone, anche con voi e con altri, e poco a poco si concretizza. L’altro giorno parlavo con Adrian Paci di questa cosa e lui ha fatto un’osservazione molto interessante, ha detto “deve sempre rimanere una tensione, non dobbiamo mai arrivare…va bene pensare arte e quartiere perché per il momento non esiste, con gli spazi per il quartiere dove si fa arte e gli spazi artistici dove entra il quartiere, però bisogna fare in modo che la cosa non finisca lì”, e secondo me questo è un atteggiamento molto giusto. C’è una citazione di Max Ernst che tradotto in Italiano sarebbe pressappoco “un artista che si trova, dunque che trova se stesso, quella che è la sua ricerca è persa”.

OinO - E’ il fare arte che non intende realizzarsi in maniera conclusiva nel presente ma che si pensa in quello che essa produrrà nelle fasi successive, nel futuro...

B - Qui non è il risultato finale che conta, a mio avviso, la cosa interessante è il processo e che cosa altri possono imparare da questo processo se riusciamo a fare una cosa che nessuno a fatto prima di noi, allora diventa interessante, no? Se copiamo soltanto modelli allora non è più interessante.

OinO - Questa potrebbe essere un’esperienza esportabile?

B - Esportabile non penso. Ne parlavamo anche con Park Ficition, dato che loro stavano lavorando già da otto anni quando li abbiamo incontrati, e quando hanno visto quello che stavamo facendo, Christof ha detto “ma voi fate tutte le cose già in modo molto più moderno”. Non ho capito bene cosa volesse dire, però lui era molto positivo su tutto e noi non avevamo l’impressione di fare qualcosa di straordinario, abbiamo soltanto messo insieme le cose.

OniO - Quindi voi siete diventati quasi il perno intorno al quale sono ruotate tutte queste energie che già esistevano, come una partenza che servisse a rendere possibile questo sogno o rendere visibile questo malumore.

B - Non è così facile.

OniO - Ci è sembrato che la vostra presenza qui e il lavorare da anni all’interno di questa situazione non dipendesse dalla volontà di creare un’altra possibilità espositiva, la necessità di un altro museo che mancava per intenderci, ma invece l’esigenza di un modo altro di fare arte.

B - Sì, ma per tornare alla domanda precedente diciamo che la situazione attuale con il Forum, con l’Associazione Genitori, con il Comitato dei Mille non si è costituita intorno a qualcosa, ma si è costruita a poco a poco, è cresciuta, ci sono stati degli alleati, persone che hanno intuito che questa è una via giusta, ed altri che ci hanno combattuto. Non è stata una lotta solo contro il Comune, contro i privati, ma anche contro altri che non condividono questa cosa, che hanno sempre…

OinO - Quale cosa?

B - Ad esempio il centro per l’arte. Io mi ricordo quando ne abbiamo discusso nel 2002, quando io per la prima volta parlavo di questa possibilità di coinvolgere il mondo dell’arte per rinforzare la lotta del quartiere, in una riunione da Cantiere Isola, e mi è stato risposto da alcuni che se noi portavamo l’arte portavamo le persone piene di soldi e che la situazione alternativa che a loro piaceva sarebbe finita. Non volevano assolutamente l’arte e poi quando, nel 2003, il nostro progetto si è affermato altri gruppi della Stecca, come Cantiere Isola, non vedevano di buon occhio questa cosa perchè vedevano l’arte come una tra le tante cose.

OinO - E questo la dice lunga su come viene vista l’arte...

B - Diventare il perno non era una cosa che veramente abbiamo voluto sin dall’inizio, ma a poco a poco è diventato così, perché nessun altro faceva le cose e le cose erano da fare, dunque abbiamo fatto, come adesso, quando nessuno pulisce le scale lo facciamo noi, o altre cose, come discutere con un partito politico, ecc…facciamo tutto quello che è necessario per il progetto. Ecco perché dico che è un progetto completo, che ti coinvolge anche come persona su tutti i livelli, che ti crea amici e ti crea persone che ti odiano.

OniO - Al dì la dei comitati, la gente del quartiere è consapevole di quello che sta per succedere o c’è ancora disattenzione?

M - Penso che la salvaguardia dei giardini sia un fortissimo desiderio per gli abitanti. E’ chiaro che la Stecca nelle condizioni in cui si trova fa sì che tantissimi vogliono che venga abbattuta, ma questo era già così nel 2001, quando OUT ha realizzato il disegno della Stecca ristrutturata, perché abbiamo capito che quando dicevi alla gente che la si poteva anche ristrutturare, la risposta era “sì ma adesso fa schifo”. Allora abbiamo capito che bisognava creare il desiderio di un’altra Stecca e quindi si è fatto, anche con i bambini e con chi voleva partecipare, un disegno in cui mostrare che cosa volevano le persone dentro alla Stecca, dentro ai giardini, e questo disegno il comitato di quartiere l’ha usato scrivendoci sopra “e se la Stecca fosse così?”, l’ha diffuso in tutto il quartiere e sì è visto come la gente cambiava idea, solo vedendo come avrebbe potuto essere.

B - La cosa chiara è che anche il quartiere si è mobilitato, abbiamo fatto il corteo, l’assemblea. Politicamente sì è visto che la maggioranza del consiglio di zona è passata dalla destra alla sinistra e nelle primarie organizzate dalla sinistra il candidato che si è più alleato alla nostra lotta, Dario Fo, in tutta Milano aveva preso il 12%, all’Isola il 22%. Dunque si è potuto verificare che questa zona è diversa. Usando l’immagine del fumetto di Asterix, l’Isola è come il villaggio di Asterix: tutto intorno è conquistato dall’Impero Romano e il villaggio resiste, con dei personaggi strani che siamo noi, oppure è come il paese nella città, anche se dicendolo così risulta semplificato. Noi vediamo che se facciamo delle iniziative il comitato di quartiere diventa credibile, ma a mio avviso per quanto riguarda l’arte la cosa non è così semplice. Gli abitanti hanno capito che noi siamo con loro, che stiamo con il comitato, però non hanno ancora capito quello che vogliamo, cioè che vengano alle mostre, perché questa è una relazione che si costruisce, perché il pubblico del quartiere lo devi costruire, ancora non esiste e questa è una parte del progetto che bisognerebbe pensare bene perché di solito un centro per l’arte, o un museo, attira il mondo dell’arte della città e altri e il quartiere attorno non partecipa, sono due entità diverse. Invece qui si tenta di creare un legame più forte con gli abitanti e questo vuol dire anche creare un luogo pubblico con il pubblico dell’arte che viene a vedere le mostre e anche con persone che fino adesso non si sono interessate d’arte. Questo comporta non solo un’altra didattica ma anche un’altra prassi artistica. Questa è un po’ la sfida, di non fare delle cose populiste che piacciono a tutti, dove nessuno capisce se è arte o meno, ma anche di stimolare la curiosità, non soltanto perché i bambini si divertono, ecc. Questa è una sfida del progetto che non abbiamo ancora raggiunto, ma a mio avviso stiamo creando le basi, ad esempio fare delle visite guidate per l’Associazione Genitori, perché le cose nascono anche dando certi stimoli.

M - C’è un nuovo progetto che si chiama “piedibus” che nasce da un bisogno del Comitato dei Genitori che vorrebbero che i loro bambini potessero andare a scuola a piedi, allora ci siamo inventati un progetto comune coinvolgendo la NABA, creando questo piccolo concorso per fare giubbotti, la segnaletica, ecc., cosicché in futuro ci saranno altre collaborazioni perché il quartiere ha un problema o vuole qualcosa e noi proviamo a realizzarlo insieme.

OinO - Vi siete completamente inseriti nel quartiere, sia come artisti sia come cittadini, le due cose non sono separate.

M - E’ una scelta. In quanto artista puoi anche scegliere di vivere negli aeroporti e di essere sempre presente alle inaugurazioni…noi invece abbiamo deciso di lavorare qua, attorno a noi, dove viviamo.

OinO - Nel mondo dell’arte come è stata vista la cosa, cosa avete recepito, rispetto a questo che è, come dire, solo un fatto, un evento, ma presuppone tutta una riflessione attorno alla questione teorica del fare arte e del ruolo dell’artista?

Bert - Io ho visto dovunque, sia qui che nel resto dell’Europa e recentemente anche in Asia un grande interesse per quello che stiamo facendo ed una grande simpatia. Anche tra i giovani artisti di mercato qui a Milano, molti hanno anche dato delle opere per l’asta per sostenere il progetto. Non sono convinto che tutti capiscano cosa sta succedendo, una parte degli artisti che dal 2003 al 2005 hanno lavorato con noi avevano come modello il gruppo di artisti come era esistito negli anni ’80 in Italia ma anche altrove, cioè di mettersi insieme, occupare uno spazio, fare le mostre, invitare altri amici e autopromuoversi con questo. Chiarire che qui era un’altra cosa non era così facile, ci ha portato anche a conflitti, però era necessario per tenere il progetto aperto anche ad altri, non volevamo l’immagine di un gruppo chiuso. Abbiamo chiesto la collaborazione di alcuni giovani curatori, Roberto Pinto, ad esempio, questo l’ha capito ed ha portato qui il suo corso di giovani curatori di Brera, alcuni sono rimasti. Era molto importante far capire che non era un gruppo chiuso con un suo spazio ma di avere un progetto d’arte aperto alla ricerca e ad altri. E’ chiaro che in una città come Milano ci sono persone che non lo condividono perché viene visto come una concorrenza, però questi sono solo dettagli.

OinO - Ci sono in Europa, alcuni musei, ad esempio a Parigi il Palais de Tokyo, che stanno ripensando se stessi con un’intenzione diversa da quella puramente conservativo – espositiva cominciando a riflettere sul loro ruolo rispetto alla comunità, forse anche a seguito delle varie situazioni come questa della Stecca in cui si pensa all’arte e ad un centro per l’arte in modo differente?

B - Sì, come dicevo prima, ci sono spazi per l’arte che vogliono una situazione meno aulica, più di vita quotidiana, ma questo non si può fare dovunque e sempre, si possono però fare delle iniziative in questo senso. Prendiamo il Palais de Tokyo con un progetto di un artista non molto noto in Italia che ha fatto l’orto degli abitanti vicino al museo, che è un banalissimo orto come tutti hanno in campagna con insalata, cavoli, carote, soltanto che questo è nel centro di Parigi vicino al Palais e viene tenuto da alcuni abitanti. Anche qui all’Isola Stefano Boccalini ha fatto un tentativo di orto comunitario, ma l’iniziativa è poi fallita perché da un lato non si è creato un gruppo che l’ha portato avanti, dall’altro Stefano non l’ha seguito, e stata una cosa fatta e poi dimenticata anche se c’erano le potenzialità perché avevano partecipato una ventina di persone ed era un atto costituente di qualcosa, mentre al Palais de Tokyo è andata che i curatori hanno chiamato Robert Milain da Bordeaux, se non mi sbaglio, a fare questo progetto, ed è tutta un’altra cosa perché sono state coinvolte una o due famiglie e poi questo viene mostrato. Invece l’inizio del progetto di Stefano era molto più forte perché questi giardini sono in pericolo e gli abitanti li prendono e se ne prendono cura. Purtroppo la cosa non è andata avanti, come altri progetti che si sono iniziati e non sono stati finiti, però bisogna fare una riflessione critica anche su queste cose. Io credo che la cosa interessante di questa situazione dove c’è conflitto è che c’è la possibilità di agire sia per gli artisti che per gli abitanti, si aprono delle possibilità di lavorare insieme, dove chi partecipa forse non sa se questo è arte o non è arte, ma almeno è una situazione calda dove può avvenire qualcosa, poi si devono trovare i modi per farne una cosa interessante.

OinO - Una zona d’emergenza, però viva.

B - Le persone si aprono quando sono attive, non quando sono passive, questo è un dato di fatto. E’ la forza ma anche il limite di una cosa come questa, perché avrà una storia con un inizio ed una fine, inutile illudersi che la cosa potrà rimanere sempre così. L’importante è quello che si costruisce in questo momento storico. Già il fatto che siamo riusciti a cambiare il progetto iniziale, per me è un risultato molto importante, abbiamo già migliorato molto quello che era previsto. Sto pensando che l’anno prossimo farò la mostra personale al museo di Ginevra ma voglio inserire anche l’Isola e l’ufficio OUT e ho pensato ad un titolo così “una città non è un ready – made”, che significa una cosa finita che tu prendi così. La mia domanda è “la città può essere vista come una scultura”? Perché la scultura presuppone l’intervento su di una forma preesistente, marmo, legno, che scolpisci o modelli, se è creta. La città non si ferma mai, è in trasformazione permanente. Noi interveniamo con uno spirito “sculturale” sulla città perché abbiamo voluto modificare la forma, come nella scultura devi fare i conti con il materiale, ad esempio con la creta puoi modellare come vuoi, ma a una certa dimensione non puoi fare tutto, devi fare i conti con il materiale, così come per il marmo devi tenere conto della sua resistenza. Qui è la stessa cosa, non puoi fare tutto, c’è una forma data, intervieni per cambiare questa forma secondo una tua idea, ma che non è per forza solo la tua, e ottieni un risultato “sculturale” perché in definitiva hai modificato un pezzo della città. In questo senso si può parlare di un approccio sculturale, che però io non chiamarei scultura ma il modellare, cioè dare una forma: Beuys l’ha chiamato “soziale plastik”, ma in italiano ed in francese non significa la stessa cosa perché plastik significa qualcosa che a che fare con il modellare non con lo scolpire e viene sempre tradotto con “scultura sociale”, ma è sbagliato. Io parlo ”di un modellare politico” e urbanistico, non sociale, che fa parte di questo, però non è questo l’unico scopo. E ovviamente, come per la scultura, è una metafora, non lavori con niente, lavori con strumenti, con aiuti, anche qui non è una cosa solitaria. OUT è uno strumento per questo modellare politico e urbanistico, ma non è l’unico. Questa è una mia visione artistica del progetto.

M - L’arte come strategia.

Bert - Sì, anche. Per esempio Picasso ha rappresentato e accompagnato i cambiamenti e le lotte, ha rappresentato Guernica, che comunque resta una rappresentazione di un fatto storico, invece quello che facciamo noi, per rimanere nella storia dell’arte, è molto più vicino all’approccio di John Heartfield che nasce come dadaista poi vuole incidere nella realtà e fa le grafiche e i collage che si possono anche esporre in una galleria, ma il fatto importante è che erano le copertine di riviste vendute in migliaia di copie o di manifesti per la città. Negli anni settanta era nato questo concetto di “site specific”, l’arte pensata per un luogo specifico, ma parlava del luogo geografico o architettonico e del rapporto dell’opera d’arte che vi si deve inserire. Soltanto che molti di questi artisti avevano dimenticato che il luogo significa soprattutto le persone che ci vivono e che lo usano, per esempio, Richard Serra ha creato un grande problema in “Federal Plaza” a New York, dove l’opera è stata distrutta. Da qui in poi molti artisti hanno capito che le persone esistono e quindi si è passati dal site specific alla “audience specific”, anche questo è un mio concetto, che vuol dire “specifico alle persone”, al pubblico di questo luogo. Invece, ed è quello che stiamo facendo noi, se il pubblico si trova in una situazione di lotta si può parlare di “fight specific”, arte specifica alla lotta, in Inglese suona soltanto come un leggero spostamento di suono, “site specific” - “fight specific”, e s’inserisce in una volontà della responsabilità sociale, un po’ come certi artisti degli anni venti in Unione Sovietica o i Messicani, in tempi recenti ovviamente come Beuys ma anche il Situazionismo e noi lavoriamo anche sulle basi di questi artisti che sono venuti prima di noi, sarebbe ridicolo pensare che inventiamo tutto da zero.

OinO - Mariette vuoi concludere con una frase che in qualche modo possa anche essere un riferimento al futuro.

M - Forse quello di cui mi rendo sempre più conto è che tutto quello che adesso stiamo provando anche a teorizzare non sarebbe comunque stato possibile senza due o tre persone che abitano qui all’Isola, che sin dall’inizio hanno capito, hanno colto, senza capire l’arte nel suo aspetto teorico. Quindi tutto questo percorso non sarebbe stato fattibile senza di loro, tutto si sarebbe fermato ad un certo punto, anche l’idea di un centro per l’arte. Io penso che l’artista da solo non può inventarsi un progetto così, che comunque è nato insieme a queste persone, è legato a queste persone, soprattutto a Patrizia, che è stata anche la compagna di un pittore che è deceduto, e che ha la sensibilità di una persona che conosce l’arte. Non so bene, ma penso che tutto questo sia una cosa possibile soltanto se la situazione lo permette, perché c’è già un’attenzione nella società. Non è trasportabile ovunque, insieme all’arte ci vuole una situazione dove la gente è disponibile anche a voler cambiare.


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